IL DELIRIO: UN “SINTOMO” FONDAMENTALE IN PSICHIATRIA | DOTT. STEFANO FONTANA

delirio e psichiatria

Pubblichiamo l’interessante articolo del dott. Stefano Fontana, medico psichiatra dell’Ospedale Maria Luigia, sul delirio e le sue implicazioni rispetto alla relazione medico-paziente in psichiatria. L’articolo è stato pubblicato nell’ultimo numero della rivista Stardea.

Un “sintomo” fondamentale in psichiatria: il delirio

Ho posto tra virgolette la parola sintomo perché il Medico che abbia a che fare con la persona affetta da disturbi psichici viene inesorabilmente coinvolto in una relazione molto diversa da quello che di solito si considera come “rapporto medico-paziente”.

Nella pratica medica abituale, a prescindere dalle doti umane ed empatiche più o meno presenti e spendibili, il paziente porta il sintomo, riconosciuto dall’esperto come la manifestazione di una patologia sottostante; i nessi che legano queste due polarità stanno in una relazione di causalità lineare, possono mutare nel tempo, ma restano sempre definiti (o, se non lo sono, si ritiene che ciò accada perché non si è ancora riusciti a definirli).

Il sintomo nel paradigma biologico-funzionalistico

In ogni caso tutti gli elementi di questa filiera sono per il paziente dei corpi estranei, degli “ospiti indesiderati” (come un mio amico aveva, un po’ di tempo fa, molto efficacemente definito la neoplasia da cui era stato colpito) da cui l’uomo di scienza deve liberarlo, per restituirlo al suo mando il più possibile com’era prima.

Eventuali cambiamenti della “persona” rappresentano null’altro che l’espressione di un forzato, e possibilmente reversibile, adattamento alla condizione patologica e rimangono in ogni caso periferici, non intaccano, se non molto parzialmente, l’immagine originale.

Questo è il paradigma biologico-funzionalistico in cui l’esaminatore ricerca la causa di cui quel sintomo è effetto; la distanza tra medico e paziente è massima, il malato, attraverso l’operazione di riduzione diagnostica, diventa un caso clinico.

In psichiatria esso può essere sintetizzato nell’assioma: “Le malattie mentali sono malattie del cervello” che è stata enunciata e fatta propria da illustri e nobili suoi “padri” (Griesinger, Wernicke, Kleist), oppure “sono disturbi delle funzioni psichiche” (Kraepelin, Bleuler, Ey), espressione, quest’ultima, non meno categorica, ma forse più aperta verso una, ancorché non ben definita, trascendenza relazionale.

I disturbi delle funzioni psichiche producono un mutamento della persona

Partiamo allora da quest’ultima definizione. I disturbi delle funzioni fisiche producono alterazioni di organi ed apparati, quelli delle funzioni psichiche producono un mutamento della persona, del suo rapporto con sé stessa, col mondo e con gli altri.

Il paziente psichiatrico non “ha qualcosa”, o più precisamente non basta più dire che ha qualcosa, “è qualcuno”, forse non è più lo stesso di prima, forse non chiede nemmeno di ritornare ad essere quello di prima e questo può rappresentare un elemento di destabilizzazione per il medico che si trovi a confrontarsi con lui.

Eppure, di solito, non è difficile coglierne la sofferenza e la richiesta di aiuto. Per riconoscerle però non è sempre sufficiente fare una diagnosi, operazione in ogni caso utile e preziosa, ma diventa necessario, da parte di chi lo cura, compiere un passo ulteriore che si può riassumere nella parola comprendere, usata nel suo significato più profondo: quello strumento di conoscenza che implica la temporanea messa fra parentesi dell’aspetto tecnico, del distacco professionale, per calarsi in una relazione interumana, che comporta lo sforzo di riconoscere l’essenza di quello stato d’animo in cui diventano possibili certe manifestazioni psichiche cui si attribuisce il valore di sintomi.

Per immedesimazione, per intuizione, nel tentativo di cogliere nell’altro da sé l’espressione del suo modo di essere, la sua visione del mondo, quella sua particolare esperienza, salvo poi accorgersi, fatto, talora, non del tutto rassicurante, che gli elementi in comune tra “normale” e “patologico” sono molto maggiori di quanto non si pensi.

Il delirio: sintomo cardine della psichiatria

Il delirio, nel suo doppio aspetto di sintomo cardine della psichiatria, e della psichiatria più grave, così come di trasformazione/sconvolgimento della persona, può certamente rappresentare un tema in cui i concetti brevemente esposti fin qui trovano una loro efficace esemplificazione.

Il delirio è l’essenza stessa della follia,  è l’espressione tipica di quella che un tempo veniva chiamata alienazione, termine molto forte e intriso del veleno dell’emarginazione, che significa in sostanza perdita del possesso della propria personalità.

Il delirio secondo Karl Jaspers

Il delirio viene classicamente definito come una idea errata che venga mantenuta in modo incorreggibile, senza essere scalfita dall’esperienza della sua confutabilità. In realtà tale definizione è quanto meno superficiale, se non francamente scorretta e fuorviante perché ne coglie solo un aspetto esteriore, senza provare a dirci nulla di quello che accade in sostanza.

Seguendo Karl Jaspers diremo allora che il delirio è la manifestazione di una trasformazione della coscienza della realtà che si esprime e si comunica attraverso giudizi sulla realtà che, quelli sì, presentano le caratteristiche che abbiamo già rilevato prima ed altre ancora:

  • Il sentimento di assoluta certezza soggettiva e la straordinaria convinzione con cui vengono mantenuti.
  • La non influenzabilità da parte dell’esperienza concreta (delle confutazioni);
  • L’impossibilità del contenuto. In realtà il contenuto può anche, talvolta, essere possibile, ma il processo intuitivo/deduttivo/interpretativo che porta ad esso è destituito di qualsiasi fondamento.

La realtà ha sempre una componente soggettiva

Torniamo al concetto di realtà. Per realtà si deve intendere sia la realtà oggettiva del mondo che ci circonda, sia quella soggettiva del nostro mondo interiore: è dall’unione tra queste due componenti che nasce la coscienza della realtà.

La realtà oggettiva, l’esistente in sé, l’essere autentico è, in ultima analisi, un obbiettivo da raggiungere per approssimazione, un’astrazione teorica che equivarrebbe al mondo  come sarebbe se nessuno lo osservasse.

La realtà infatti ha sempre una componente soggettiva, nel senso che la percezione che ci è data di lei dipende dal nostro modo di essere e di sentire; poi la realtà concreta tempera e modula il nostro vissuto, lo rende condivisibile e attraverso la condivisione con gli altri  possiamo avvicinarci a cogliere la realtà oggettiva.

Peraltro la consapevolezza della realtà è un’esperienza primaria  e immediata della nostra esistenza: la componente soggettiva, per quanto presente, non è mai tanto intensa da impedire il confronto dialettico con gli altri. Anzi, da questo confronto nasce spesso una visione più ricca e più articolata della realtà stessa.

Delirio e rapporto con la realtà

Ebbene tutto questo è quello che va perso nell’esperienza delirante: la percezione della realtà mantiene il suo carattere di immediatezza e di efficacia rappresentativa, il confronto con gli altri rimane, perlopiù, possibile sul piano formale,  ma la componente soggettiva è talmente debordante da stravolgerne in modo irreversibile (almeno finché quello che noi chiamiamo delirio è presente) il significato e da sottrarlo ad ogni possibilità di confronto dialettico e le categorie logiche, la razionalità, l’intelligenza sembrano mettersi a disposizione dell’esperienza primaria di trasformazione della realtà.

Questo ci dà la misura da un lato di come i meccanismi psicologici che governano il rapporto Io-Mondo non siano radicalmente diversi nel malato psichiatrico rispetto alla persona sana, dall’altro di quanto possa giungere a dilatarsi la distanza tra pensiero normale e pensiero delirante.

Idee deliranti primarie e secondarie

Dal punto di vista della classificazione le idee deliranti sono state fatte oggetto di alcune distinzioni.

La prima è quella che distingue le idee deliranti c.d. primarie per le quali non si può ipotizzare che un “processo” di trasformazione/sconvolgimento della personalità, da quelle secondarie o deliroidi, così chiamate perché i sentimenti o i moti psicopatologici che le hanno generate sono, come si dice, comprensibili, ovvero sono condivisi da tutto il genere umano o sono deducibili dalla conoscenza della personalità e della storia di vita di chi le esprime.

Apparterrebbero a questa categoria i deliri passionali: le idee erotomaniche, le idee di gelosia, ispirate a sentimenti che tutti noi (o quasi) abbiamo provato o possiamo provare, anche se, come si diceva,  la distanza tra le manifestazioni normali di questi sentimenti e la loro esasperazione patologica può apparire incommensurabile.

Oppure altre tipologie di personalità: i fanatici e gli idealisti  passionali (delirio di rivendicazione, delirio interpretativo), i megalomani e gli inventori, le personalità “psicasteniche”, timide, scrupolose, ipersensibili al giudizio degli altri (delirio di rapporto sensitivo).

Si tratta di una distinzione molto discutibile, sia perché solo una piccolissima quota dei soggetti con le personalità brevemente descritte sopra sviluppa sintomi deliranti, sia per la debolezza intrinseca di questo concetto di comprensibilità, che può diventare molto più esteso ove si adotti quell’atteggiamento di comprensione, di dialogo interumano di cui si parlava prima, fino ad includere tutte le forme di delirio.

Deliri di grandezza e di colpa

Un altro criterio molto scolastico è quello di una distinzione tra:

  • Deliri riconducibili ad un’espansione dell’Io: deliri di grandezza, di onnipotenza, deliri profetici, genealogici…
  • Retrazione delirante dell’Io: idee di indegnità, di colpa, di rovina, idee ipocondriache;
  • Fra queste due polarità opposte si colloca il più frequente dei temi deliranti, quello di persecuzione in tutte le sue varianti (persecuzione morale, fisica, veneficio, possessione, trasformazione…), in cui il soggetto è allo stesso tempo un protagonista, per così dire, ma in negativo, destinato com’è a subire nocumento da parte di un mondo divenuto ostile.

Alcune caratteristiche sono comuni o prevalenti. Le tematiche “negative” sono molto più frequenti di quelle espansivo-megalomaniche e anche in queste ultime è sempre presente un forte senso di rivalsa nei confronti dei possibili detrattori, dell’incomprensione del mondo, tanto da far pensare che i sentimenti che sottendono tutte le esperienze esprimano sempre un vuoto ed una perdita.

La persona, come vittima o carnefice, rejetto o protagonista, è sempre al centro del mondo: il mondo ha perso la leggerezza, la neutralità, la distanza discrezionale che lo rende accessibile all’esplorazione e alla conoscenza confidente ed è come se si fosse ispessito, fatto più prossimo, ma di una prossimità  incombente.

Paranoia

Il delirio è impresso delle caratteristiche della malattia che lo ha generato. Talora è esso stesso la malattia, con un tema unico, granitico, irrinunciabile, che viene elaborato secondo le categorie della logica convenzionale (almeno entro certi limiti!: Gelosia, Rivendicazione)  e, a volte, una quasi incredibile conservazione della personalità e del suo funzionamento normale al di fuori di quel tema. E’ la Paranoia, oggi Disturbo Delirante, che spesso rappresenta una delle forme più resistenti ad ogni tentativo di  approccio terapeutico.

Nella grave depressione melanconica i temi sono fissi: colpa, rovina e ipocondria. Secondo Kurt Schneider essi rappresentano le angosce fondamentali dell’uomo: quella per l’anima, per i beni materiali e per la salute fisica. In ogni caso l’atmosfera in cui sono vissuti è quella di un’angoscia senza fine, di un presente che ha perso ogni possibilità di proiettarsi nel futuro e che rielabora il passato solo in chiave di preparazione alla tragedia che si sta consumando.

Delirio di negazione

Spesso solo la morte può porre fine a questa angoscia sconfinata. Raro ma tipicamente depressivo è anche il Delirio di negazione o Sindrome di Cotard che sembra compendiare in sé, nel modo più orribile, i tre temi precedenti: trasformazione/pietrificazione dei propri organi o del proprio corpo, condanna a soffrire per l’eternità, compresenza di morte ed immortalità.

Nella Schizofrenia i temi dominanti sono perlopiù quelli di persecuzione/influenzamento, controllo telepatico, lettura del pensiero: l’Io ha perduto i confini rassicuranti della propria intimità e diventa accessibile ad altri, ad un’alterità malvagia e distruttiva. Ma a causa della gravità e della complessità della malattia, che implica la compromissione di molte altre funzioni psichiche, esso è difficile da esprimere e da comprendere, male articolato, enigmatico e allusivo, così da ostacolare e rendere difficile la costruzione di una relazione umana e terapeutica.

Il delirio e la terapia farmacologica

Solo un cenno al problema della terapia. Esistono farmaci antipsicotici che vengono definiti deliriolitici, che sembrano dotati del potere  di correggere  quel disturbo ideativo (il Delirio è un disturbo del contenuto del pensiero o dell’ideazione) che porta alla formazione delle idee deliranti.

Nei deliri depressivi il trattamento specifico contro la Depressione può essere molto efficace e salvare il paziente dall’elevato pericolo del suicidio. L’incomunicabilità  e l’incorreggibilità dell’esperienza delirante costituiscono certamente un grosso ostacolo ad un approccio psicoterapico, ma talvolta esso può rivelarsi uno strumento molto prezioso per ricostruire un rapporto col mondo che è andato perduto.

Al netto di tutto questo occorre però ancora riconoscere che non sempre queste “armi” funzionano  e lo Psichiatra, forse più di altre categorie mediche, deve non di rado confrontarsi con la frustrazione della limitatezza dei propri strumenti. Forse anche questo (non solo!) ha contribuito alla nascita di certe aberrazioni pseudoprofetiche che hanno negato la malattia mentale e relegato la psichiatria ad una branca periferica della sociologia.

Per quanto mi riguarda, credo che la consapevolezza dei propri limiti sia più utile a superarli della loro negazione, ma sono altresì convinto, con Hemingway, che l’umiltà non comporti la perdita del vero orgoglio né la rinuncia a fare tutto il possibile per alleviare la sorte dei nostri pazienti tanto con le “cure” tradizionali, di cui si auspicano ulteriori progressi, che con la “cura” della disponibilità ad una relazione che sia sempre tra uomo e uomo.

dott. Stefano Fontana

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